Sergio Caputo, un sabato napoletano

Sergio Caputo al teatro Acacia per Vomero suona#23.

Quelli della mia generazione, quelli nati tra la fine degli anni 60 e l’inizio del decennio successivo, sono una delle ultime generazioni che ha avuto la fortuna di ascoltare canzone d’autore italiana di grande qualità

Quando ero appena un ragazzino nel 72 se non ricordo male Lucio Battisti pubblicava “Il mio canto Libero”, Lucio Dalla “Come è profondo il mare” nel 77,  l’anno precedente nel 76 De Gregori pubblicava  “Bufalo Bill”.

Ricordo ancora quando misi i soldi da parte per andare a comprare “Crêuza de mä” di Fabrizio De Andrè, quando lo ascoltai,e non ci capii niente, ma ne rimasi totalmente affascinato.

Potrei continuare, con la scoperta di Pierangelo Bertoli, di Guccini, di Lolli, dell’ amore assoluto per il genio compositivo di Umberto Bindi, e di quando quella volta andai a sentire Paolo Conte al teatro Acacia di Napoli, spendendo una fortuna per il biglietto, 50.000 lire, credo fosse il 1990, feci dei debiti per andarci!

Nel corso degli anni 90 ci furono vari tentativi, e qualche novità nella canzone d’autore, ma nulla di paragonabile con le pagine scritte nei decenni precedenti, sino all’ arrivo sulla scena di un cantautore esile, dall’ aspetto fragile, innamorato del jazz, che si chiama Sergio Caputo.

La prima volta me lo fece ascoltare un amico di scuola, aveva il 33 giri “Sabato italiano” ne rimasi folgorato.

Dario, così si chiamava quel mio amico, me ne fece una copia su una cassetta audio, non si sentiva benissimo, ma credo di averla consumata a furia di ascoltarla.

Il disco in verità non mi piaceva, non era suonato come avrei voluto, ma le canzoni, e i testi di quel lavoro mi facevano letteralmente impazzire.

Caputo aveva trovato un linguaggio autonomo, era artefice di una letteratura in versi, nuova, musicale, ritmica, un funambolo delle parole, un autore in grado di swingare piegando aggettivi, sostantivi e versi a suo piacimento.

Il resto è storia, e più o meno la conosciamo tutti, è la carriera di un cantautore di razza, capace di rendere in una nazione “sorda” come l’ Italia, lo swing una musica quasi alla portata di tutti, senza mai banalizzare il contenuto della sua produzione.

Il 28 Aprile, sono tornato all’ Acacia, questa volta invitato da Michele Solipano, operatore culturale direttore artistico della rassegna Vomero Suona, del Napoli Jazz Club, e di altre apprezzate manifestazioni musicali.

Ho assistito al concerto di Sergio Caputo, che dopo 30 anni riproponeva interamente il disco “ Un sabato italiano” uscito nel 1983.

Sul palco la band, composta da Sergio Caputo (chitarra e lead vox) e da musicisti di altissimo profilo come Fabiola Torresi (basso e voce), Alessandro Marzi (batteria e voce), Paolo Vianello (piano), Alberto Vianello (saxe Lorenzo De Luca (sax alto), e il mio amico Gianfranco Campagnoli, che sostituiva al volo, il trombettista residente Luca Iaboni, impossibilitato ad esibirsi nella data napoletana.

Si spengono le luci, i musicisti salgono sul palco, c’è tensione palpabile, tutti aspettano Caputo, che un po’ titubante arriva come da copione per ultimo sul palco, l’applauso arriva forte, sincero immediato e liberatorio.

Sergio si avvicina al microfono e con grazia e sincerità avvisa il pubblico di non sentirsi bene, di avere accusato un improvviso abbassamento di voce, ma promette di mettercela tutta e di onorare sino in fondo il suo impegno.

E lo fa, malgrado tutto, con professionalità serietà e swing, porta in porto la sua nave, in salvo le sue canzoni, e regala uno spettacolo di grande umanità e professionalità.

Il 28 Aprile era un venerdì. ma per tutti, si è trasformato in uno splendido “sabato napoletano”

Lino Volpe

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